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(Avv. Dubini – Approfondimenti) Sicurezza del lavoro e rischi di caduta nei lavori in quota

(Avv. Dubini – Approfondimenti) Sicurezza del lavoro e rischi di caduta nei lavori in quota

12.06.2017

Sicurezza del lavoro e rischi di caduta nei lavori in quota

di Rolando Dubini, avvocato in Milano, Studio Legale Carozzi-Dozio-Dubini, consigliere nazionale Aias

Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza 39024 del 20/9/2016

MASSIMA (di Rolando Dubini)

La sentenza della Corte di Cassazione, la n. 39024 del 20/9/2016 della Sezione IV penale ha analizzato l’art. 122 del D. Lgs 9/4/2008 n. 81, anche in relazione alle previgenti norme sulla protezione dalla caduta dall’alto di cui al D.P.R. 7/1/1956 n. 164, abrogate, e al D. Lgs. n. 235/203 attuativo della direttiva 2001/45/CE relativa ai requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso da parte dei lavoratori delle attrezzature di lavoro utilizzate per l’esecuzione dei lavori temporanei in quota, che integro’ l’allora vigente D. Lgs. 19/9/1994 n. 626. Quest’ultimo provvedimento introdusse la definizione dei lavori in quota come “una attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile“.

Vero è che la misura dei due metri in relazione al rischio di caduta dall’alto era già presente nel D.P.R. n. 164/1956, ai sensi del quale, art. 16, “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m. 2, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose“.

In relazione a detto art. 16 del D.P.R. n. 164/56 alcuni si sono chiesti, visto che lo scopo della norma è l’eliminazione “dei pericoli di caduta di persone o di cose”, se per l’altezza di 2 metri si doveva intendere la quota alla quale venivano effettuati i lavori, corrispondente sostanzialmente all’altezza della posizione delle braccia, unica interpretazione valida in base all’interpretazione letterale della norma (obbligatoria ai sensi dell’articolo 12 delle preleggi al codice civile) che parla di lavori. Oppure, in base ad una interpretazione non letterale e sostanzialmente elusiva dell’obbligo di tutela del lavoratore, si dovesse intendere la quota dalla quale potesse cadere il lavoratore, corrispondente sostanzialmente alla posizione del piano di calpestio sul quale lo stesso viene a trovarsi. Interpretazione del tutto in contrasto con la norma che si riferisce ai lavori che sono stanno eseguendo, e non dove si cammina.

Coerentemente con l’interpretazione letterale prevista dall’articolo 12 delle preleggi al Codice Civile, la Corte di Cassazione, ha sempre interpretato l’art. 16 del D.P.R. n. 164/56 affermando che ciò che contava ai fini dell’applicazione di tale articolo era l’altezza alla quale si stavano svolgendo i lavori (Cass. Pen. Sez. IV 7 giugno 1983, Cass. Pen. Sez. IV 4 agosto 1982, Cass. Pen. Sez. IV n. 741 del 25 gennaio 1982), esemplificando la posizione delle mani, e MAI il piano di calpestio sul quale si trovava il lavoratore.

Il D.P.R. n. 164/1956 faceva riferimento ai lavori eseguiti ad un’altezza maggiore di 2 metri e alle misure di protezione adottare anche allorquando ha disposto con l’art. 24 che “gli impalcati e ponti di servizio, le passerelle, le andatoie, che siano posti ad un’altezza maggiore di 2 metri, devono essere provvisti su tutti i lati verso il vuoto di robusto parapetto costituito da uno o più correnti paralleli all’intavolato, il cui margine superiore sia posto a non meno di 1 metro dal piano di calpestio, e di tavola fermapiede alta non meno di 20 centimetri, messa di costa e aderente al tavolato“.

Il D.Lgs. 14/8/1996 n. 494 sui requisiti minimi di sicurezza da attuare nei cantieri temporanei o mobili e, indicava fra i lavori nell’Allegato II comportanti rischi particolari per la salute e la sicurezza dei lavoratori e per i quali venivano richiesti particolari adempimenti aggiuntivi, quelli che espongono a rischi di caduta dall’alto da altezza superiore a m 2, anche se particolarmente aggravati dalla natura dell’attività o dei procedimenti attuati oppure dalle condizioni ambientali del posto di lavoro o dell’opera.
Il D.Lgs. n. 81/2008 all’art. 122 sui ponteggi nel 2008 così disponeva: “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m 2 devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose conformemente al punto 2 dell’allegato XVIII“.

Questo articolo 122 del D.Lgs. n 81/2008 aveva recepito l’abrogato articolo 16 del DPR 164/1956, creando una perfetta continuità normativa con la precedente normativa sulla protezione dalla caduta dall’alto, come ha sottolineato la Corte di Cassazione sez. IV, n. 39024 del 20/9/2016.
Tuttavia nel 2009 il D.Lgs. 3/8/2009 n. 106, correttivo ed integrativo del D.Lgs. n. 81/2008, ha modificato l’articolo. 122 del D.Lgs. n. 81/2008, che oggi così dispone: “nei lavori in quota, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose conformemente ai punti 2, 3.1, 3.2 e 3.3 dell’allegato XVIII“.

Confrontando l’articolo 122 del 2008 con il 122 oggi vigente possiamo osservare che l’espressione “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m 2 devono essere adottate“, che compariva nel testo originario del 2008, è stata sostituita con l’espressione “nei lavori in quota, devono essere adottate”. È sparito il riferimento ai due metri. Ma questo non ha alcun significato speciale in quanto i 2 metri restano nell’articolo 107 che definisce i lavori in quota.

Secondo la Cassazione quindi non sussiste oggi alcun dubbio sull’ampio campo di applicazione dell’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008 riferito ai lavori per i quali viene richiesta una protezione al fine di evitare la caduta dall’alto di persone o cose, che il legislatore ha voluto legare esplicitamente ai lavori in quota così come definiti nell’art 107 dello stesso D.Lgs., che così dispone: Articolo 107 – Definizioni – 1. Agli effetti delle disposizioni di cui al presente capo si intende per lavoro in quota: attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile.

Non vi è alcun dubbio sulle misure di protezione da adottare ogni qualvolta nel testo del D.Lgs. n. 81/2008 vengono citati i “lavori in quota” così come accade nell’art. 115 sui sistemi di protezione individuali? Sembra di no invece, attenzione, non è come pensano molti lettori della norma che non conoscono la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, oppure che l’avversario senza averne afferrato il senso: la Corte di Cassazione interpreta l’art. 122 in relazione all’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008 esattamente come interpretava l’articolo 16 del DPR 164/1956, e quindi c’è continuità normativa e continuità giurisprudenziale: “Come più volte affermato da questa Corte, infatti, l’altezza superiore a due metri dal suolo, tale da richiedere le particolari misure di prevenzione prescritte dall’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008, deve essere calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito rispetto al terreno sottostante e non al piano di calpestio del lavoratore” (Cass. Sez. IV, n. 43987/2013 RV 257693).

Prendere come punto di riferimento la posizione del lavoratore, infatti, significa escludere la stessa configurabilità dell’ipotesi del lavoro in quota superiore ai due metri, essendo comunque necessario che l’oggetto sia a portata degli arti superiori del lavoratore.
Come evidenziato nella sentenza impugnata, nel caso di specie è stato dimostrato doveva essere costruito un soppalco ad un’altezza di 3 metri dal suolo e la lavorazione affidata a M.V. consisteva nell’avvitamento della relativa trave ad un altezza derivante dalla sommatoria dell’altezza del trabatello, dell’altezza del lavoratore pari ad 1,75 metri e dello spazio soprastante alla sua testa e necessario a consentirgli di effettuare l’attività di avvitamento con l’apposita pistola pneumatica. Dunque un’altezza sicuramente superiore ai due metri; tale da integrare il requisito di cui all’art. 122 D.Lgs. n. 81/2008″.

Cosi Cassazione Penale, Sez. 4, 20 settembre 2016, n. 39024. I due metri della quota vengono calcolati dalla suprema corte come distanza tra il “terreno” e l’altezza alla quale va eseguito il lavoro, in tal senso anche un’altra sentenza della Cassazione, tra le tante: “Invero va considerato che l’art. 122 D.Lgs. n. 81/2008, come modificato dall’art. 77 D.Lgs. n. 106/2009, prevede che nei lavori in quota debbano essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose conformemente. Il legislatore ha, dunque, imposto una maggiore cautela rispetto a quella che era prevista prima della riforma effettuata ai sensi del D.Lgs. n. 106/2009, la quale prevedeva che le cautele medesime dovessero essere adottate nei lavori che fossero eseguiti ad un’altezza superiore ai m 2. La norma si riferisce, dunque, a lavori non eseguiti ad altezza d’uomo, bensì ad un’altezza dal suolo – qualunque essa sia – che ne renda più difficile e rischiosa l’esecuzione, tanto da rendere necessario il ricorso a misure capaci di prevenire il rischio di cadute. Una modifica, quindi, che ha, in tale materia, ampliato i casi di ricorso alle opere provvisionali e a sistemi di protezione per lavori come quello che avrebbe dovuto eseguire il V.C. che, per completare l’erezione del muro fino all’altezza di metri 3,5 dal suolo, doveva necessariamente avvalersi di un ponteggio” (Cassazione Penale, Sez. 4, 6 agosto 2015, n. 34289).

Punto di riferimento costante della Suprema Corte non è MAI il piano di calpestio del lavoratore, MAI citato dall’articolo 107 del D.Lgs. n. 81/2008, ma sempre e solo l’altezza del ponteggio sommata a quella del lavoratore avendo come riferimento le mani di chi esegue i lavori, appunto con le mani, e dell’altezza del manufatto raggiunta dalle mani del lavoratore.

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avv. Rolando Dubini